Con l’approvazione della nuova riforma sulla separazione delle carriere tra magistratura
giudicante e requirente, il sistema giudiziario italiano si avvia verso un cambiamento destinato a
lasciare il segno. La norma prevede che, fin dall’ingresso in magistratura, i giovani aspirati
debbono scegliere se intraprendere la carriera di Giudice o quella di Pubblico Ministero,
superando così il modello tradizionale che consentiva il passaggio da una funzione all’altra.
Secondo il governo, infatti, la riforma risponde all’esigenza di garantire maggiore imparzialità
al giudice e maggiore autonomia al pubblico ministero, rafforzando il principio del “giusto
processo” e avvicinando l’Italia a standard già presenti in altri ordinamenti europei. Per i
sostenitori, si tratta di un vero e proprio passo in avanti, verso una sempre maggiore trasparenza
ed equilibrio di sistema. Restano, tuttavia perplessità e critiche da parte di un ramo della
magistratura e di alcuni giuristi, che paventano il rischio di una frammentazione interna e di una
minore indipendenza, soprattutto per i pubblici ministeri, potenzialmente più esposti a pressioni
esterne. Più nel dettaglio, con la riforma, per i nuovi magistrati il percorso sarà già distinto: chi
sceglierà la carriera giudicante non potrà passare a quella requirente, e viceversa; verranno
banditi due distinti concorsi, uno per accedere come Giudice ed uno per accedere come
Pubblico Ministero; il Consiglio Superiore della Magistratura, in qualità di organo di
autogoverno dei magistrati, sarà diviso: uno sarà predisposto per i giudici e uno per i pubblici
ministeri, a differenza di quanto accade oggi, in cui abbiamo un unico CSM che governa
entrambi i rami; sarà prevista un’entità disciplinare specifica per valutare eventuali
responsabilità o violazioni da parte dei magistrati. La riforma pone diversi argomenti a suo
favore, basti pensare alla maggiore trasparenza ed imparzialità, infatti, separare i ruoli dovrebbe
evitare che chi accusa e chi giudica vengano percepiti come appartenenti allo stesso “gruppo” o
ordine, riducendo, in tal senso, sospetti di conflitto di interesse. Inoltre, mostra una maggiore
garanzia di autonomia del Pubblico Ministero. Alcuni sostenitori, infatti, affermano che il
Pubblico Ministero, libero dal legame diretto con la funzione giudicante, possa operare con
maggiore chiarezza e autonomia, nello svolgimento del proprio lavoro, senza rischiare che la
vicinanza al giudice, in termini di percorso, carriera e relazioni, possa influenzare c.d. “spinte
interne”. Infine, per chi la sostiene, la riforma serve a modernizzare il sistema giudiziario
italiano, mettendolo in linea con ordinamenti dove la separazione è più netta e istituzionalizzata.
Numerose, però sono anche le critiche e rischi percepiti verso una tale svolta epocale. Uno dei
timori principali è che, il Pubblico Ministero, separato in carriera e con un CSM proprio, finisca
per essere più esposto a pressioni politiche o influenze dell’esecutivo, specialmente se non ci
sono sufficienti garanzie. Inoltre, molti critici, fanno notare che, nella pratica i casi di magistrati
che cambiano funzione sono molto rari. Dati recenti parlano di un cambio di carriera vicino allo
0,3-0,4 % nel totale di anni recenti. Se il passaggio è già quasi inesistente, allora la riforma
rischia di essere vista come un artificio, più simbolico che sostanziale. Infine, alcuni studiosi e
magistrati temono che una maggiore separazione e il rafforzamento disciplinare possano
alterare l’equilibrio previsto dalla Costituzione: se il Pubblico Ministero è percepito come un
potere autonomo molto forte, può nascere il rischio che venga considerato vicino all’esecutivo
senza opportune barriere. Per tutte tali ragioni, il dibattito rimane ancora aperto: se da un lato la
riforma viene valutata come una svolta storica, dall’altro ci si interroga sugli effetti concreti che
emergeranno nei prossimi anni. Sarà il tempo e soprattutto la prassi, a stabilire se la separazione
delle carriere riuscirà davvero a rafforzare la fiducia dei cittadini nella giustizia.