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Sfregio e deformazione del viso: la Corte costituzionale ridisegna i confini della proporzionalità penale

2025-09-25 10:00

Calogero Jonathan Amato

Diritto costituzionale,

Sfregio e deformazione del viso: la Corte costituzionale ridisegna i confini della proporzionalità penale

Le ordinanze di rimessione emesse dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Taranto, Bergamo e Catania (ordinanze del 7 luglio 2023 dal GU

Le ordinanze di rimessione emesse dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Taranto, Bergamo e Catania (ordinanze del 7 luglio 2023 dal GUP del Tribunale ordinario di Taranto, del 14 ottobre 2024 dal GUP del Tribunale ordinario di Bergamo e del 20 gennaio 2025 dal GUP del Tribunale ordinario di Catania), sollevano rilevanti questioni di legittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies c.p., introdotto dalla legge n. 69 del 2019 (“Codice Rosso”), con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione. Oggetto di censura è, in particolare, la rigidità e sproporzione del trattamento sanzionatorio previsto per il reato di deformazione o sfregio permanente del viso, punito con la reclusione da otto a quattordici anni, oltre alla pena accessoria perpetua dell’interdizione dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno. Secondo i giudici rimettenti, la norma censurata si espone a duplice vizio di costituzionalità. In primo luogo, violerebbe il principio di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.) in quanto assimila, nella medesima cornice edittale, condotte eterogenee per gravità, quali la “deformazione” e il più modesto “sfregio permanente” del viso, anche di entità minima. Inoltre, appare sproporzionata rispetto a fattispecie criminose connotate da eguale o superiore disvalore oggettivo – come le lesioni gravissime (art. 583, co. 2 c.p.) o la mutilazione degli organi genitali femminili (art. 583-bis c.p.) – sanzionate con pene sensibilmente inferiori. In secondo luogo, la previsione di una pena accessoria automatica e perpetua, svincolata da ogni valutazione giudiziale circa la gravità del fatto concreto o l’eventuale connessione con contesti relazionali o familiari, si porrebbe in contrasto con la funzione rieducativa della pena (art. 27, co. 3 Cost.), che impone un trattamento individualizzato e proporzionato alla responsabilità personale. L’Avvocatura dello Stato ha difeso la legittimità dell’art. 583-quinquies c.p., sottolineando la particolare lesività della condotta, idonea a compromettere l’identità sociale e relazionale della persona offesa, nonché la sussistenza del dolo specifico. Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale ha più volte chiarito che il principio di proporzionalità della pena è immanente all’ordinamento penale (sentt. n. 236/2016, n. 40/2019) e che la previsione di sanzioni eccessive o insuscettibili di modulazione può risultare lesiva dei principi di uguaglianza, proporzione e funzione rieducativa. Degno di nota è anche il rilievo, avanzato dal GUP di Bergamo, circa il possibile effetto criminogeno del regime vigente, che potrebbe incentivare condotte violente indirizzate a parti del corpo diverse dal volto, al fine di eludere la sanzione più severa. Nel complesso, le ordinanze di rimessione pongono al vaglio della Corte costituzionale un bilanciamento delicato tra le esigenze di tutela penale – soprattutto in materia di violenza di genere – e il rispetto delle garanzie fondamentali in materia sanzionatoria. Una eventuale declaratoria di illegittimità, anche parziale, potrebbe costituire l’occasione per ricondurre la disciplina del reato in esame entro margini di maggiore coerenza sistematica e di conformità ai principi costituzionali. La sentenza si colloca nel solco della giurisprudenza costituzionale che, a partire dalla storica sentenza n. 68 del 2012, ha progressivamente affermato la necessità di una clausola di flessibilità nelle fattispecie incriminatrici con pene di particolare rigore. Oggetto della decisione è l’art. 583-quinquies c.p., introdotto dalla l. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso), che punisce il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, includendo anche lo sfregio. Le questioni sollevate dai GUP di Taranto, Bergamo e Catania hanno riguardato sia la pena principale (otto-quattordici anni di reclusione, senza distinzione tra sfregio e deformazione), sia la pena accessoria dell’interdizione perpetua dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno, prevista in modo automatico e uniforme. La Corte, pur riconoscendo la legittimità della scelta legislativa di elevare a reato autonomo condotte già aggravanti e di rafforzare la tutela del volto come sede dell’identità personale, ritiene tuttavia il minimo edittale di otto anni sproporzionato in assenza di un meccanismo di attenuazione per i casi di minore gravità. Tale rigidità si traduce in un automatismo sanzionatorio che viola gli artt. 3 e 27 Cost., nei profili della proporzione e della funzione rieducativa della pena.  Con un’argomentazione ormai consolidata, la Corte richiama il principio secondo cui le pene di particolare severità devono poter essere modulate dal giudice, attraverso una “valvola di sicurezza” – ovvero una attenuante speciale – che consenta di tenere conto della concreta entità del fatto, della colpevolezza e della personalità del reo. In tal senso, viene affermata l’illegittimità costituzionale dell’art. 583-quinquies, nella parte in cui non prevede una diminuzione della pena fino a un terzo nei casi di lieve entità, riproducendo il modello delle sentenze nn. 68/2012, 244/2022, 120/2023, 86/2024 e 91/2024. Sul piano della pena accessoria, la Corte ribadisce la propria giurisprudenza secondo cui le sanzioni fisse, automatiche e perpetue contrastano con il principio di proporzionalità, specie quando la fattispecie astratta presenta un ampio spettro di condotte eterogenee. L’interdizione perpetua, indipendente dal contesto affettivo o fiduciario del reato, risulta eccessiva per condotte meno gravi e prive di ricadute sulle funzioni interdette. Viene dunque dichiarata l’illegittimità dell’art. 583-quinquies, secondo comma, nella parte in cui prevede l’automatica e perpetua interdizione dagli uffici di tutela, curatela e amministrazione di sostegno, stabilendo invece che essa “può” essere disposta dal giudice, fino a un massimo di dieci anni, secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p.  La sentenza n. 83/2025 conferma il ruolo della Corte costituzionale quale garante della proporzionalità della pena anche in materie di forte impatto politico-criminale, come quelle afferenti alla violenza di genere o all’integrità fisica e identitaria della persona. Essa si colloca in continuità con un filone giurisprudenziale volto a riequilibrare la discrezionalità legislativa punitiva, soprattutto nei casi in cui il legislatore abbia adottato tecniche di incriminazione di tipo simbolico o emergenziale. L’inserimento di una clausola di attenuazione consente al giudice penale di differenziare il trattamento sanzionatorio in base al disvalore concreto, riducendo il rischio di irrogazioni afflittive sproporzionate, che comprimano l’orizzonte di risocializzazione del condannato. Nel contempo, la sostituzione della pena accessoria fissa con una facoltativa e temporanea rafforza l’individualizzazione del trattamento penale e consente di distinguere tra soggetti socialmente pericolosi e soggetti occasionalmente colpevoli.

La Corte costituzionale ribadisce che l’equilibrio tra la tutela dei beni giuridici fondamentali e i diritti del reo non può essere affidato solo alla severità della pena, ma deve essere garantito attraverso la flessibilità applicativa delle sanzioni. Ciò costituisce il presupposto indispensabile affinché la pena non diventi solo retribuzione, ma anche occasione di recupero e reinserimento sociale, come richiede l’art. 27, comma 3, Cost.