L’ordinanza del 21 giugno 2024 del GIP di Milano riapre una questione tutt’ora irrisolta nel delicato bilanciamento tra diritto alla vita, autodeterminazione individuale e tutela della dignità della persona, con specifico riferimento alla disciplina penalistica dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. La rilevanza della questione non risiede soltanto nel suo oggetto — il perimetro della non punibilità dell’aiuto al suicidio in presenza di gravi patologie — ma anche nella particolare natura dei casi esaminati, in cui soggetti affetti da malattie progressive, ma non dipendenti da trattamenti vitali, hanno maturato in modo lucido e consapevole la volontà di porre fine alla propria esistenza. L’ordinanza censura in maniera argomentata il requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” (TSV) quale condizione necessaria per escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio, giudicandolo irragionevole e discriminatorio in violazione dell’art. 3 Cost. Il GIP sottolinea l’equivalenza sostanziale delle condizioni di sofferenza e di prognosi infausta tra chi è sottoposto a un trattamento salvavita e chi, al contrario, lo ha legittimamente rifiutato per evitare un accanimento terapeutico. In tal senso, il requisito del TSV assume un carattere meramente formale e, in ultima analisi, burocratico, costringendo paradossalmente il paziente ad avviare un trattamento clinicamente sproporzionato al solo scopo di soddisfare la condizione legale per poi interromperlo. Muovendo da una lettura sostanzialistica degli artt. 2 e 32, co. 2, Cost., l’ordinanza si fonda su una concezione della libertà personale che tutela anche il diritto a non subire cure ritenute incongrue e lesive della propria dignità. La condizione del TSV, così interpretata, finisce per svuotare di significato l’autodeterminazione, trasformandola in un’opzione condizionata e distorsiva. Il diritto a morire con dignità risulta subordinato all’adempimento di una condizione artificiosa, priva di fondamento clinico e lesiva del principio personalista su cui si fonda l’ordinamento costituzionale. A fronte delle eccezioni sollevate dal Governo, che ha richiamato la recente sentenza n. 135 del 2024, la quale conferma la centralità del TSV quale condizione per la non punibilità, il GIP offre un’interpretazione non sovrapponibile. L’argomentazione si articola infatti non solo sull’inutilità clinica del trattamento, ma anche sulla sua futilità e sul carattere potenzialmente lesivo, nella misura in cui il trattamento stesso configuri un accanimento terapeutico, in contrasto con la legge n. 219/2017. L’ordinanza compie inoltre un utile confronto con l’esperienza svizzera, dove l’accesso al suicidio assistito non è subordinato alla presenza di trattamenti vitali, ma alla sola verifica dell’assenza di intenti egoistici e della libertà della volontà del soggetto. Tale approccio si ricollega alla giurisprudenza della Corte EDU (artt. 8 e 14 CEDU), che riconosce il diritto al rispetto della vita privata come comprensivo delle scelte relative al fine vita e impone che eventuali limitazioni siano giustificate, proporzionate e non discriminatorie. Al centro del dibattito vi è la questione dell’adeguatezza costituzionale dell’attuale perimetro della non punibilità. Da un lato, si teme che un’eccessiva estensione dell’area non punibile possa generare forme di pressione, anche implicite, su soggetti fragili e desiderosi di vivere. Dall’altro, si solleva l’esigenza di garantire a chi versa in condizioni di sofferenza irreversibile e di prognosi infausta il diritto a una morte dignitosa. L’ordinanza tenta di conciliare queste esigenze, ponendo la persona e la sua autodeterminazione al centro del sistema di tutela. Sotto il profilo sistematico, il GIP chiede alla Corte una riflessione sulla coerenza complessiva della giurisprudenza costituzionale e sulla tenuta del bilanciamento operato nella sentenza n. 242 del 2019. Il TSV, da presidio della fragilità, rischia di divenire ostacolo alla dignità, imponendo pratiche sanitarie inutili. Una possibile via interpretativa potrebbe essere quella di rileggere il TSV non più come condizione necessaria, ma come elemento probatorio della condizione clinica e della volontà del paziente. Sul piano delle opinioni intervenute nel giudizio, l’Associazione Coscioni denuncia con forza l’irragionevolezza della condizione del TSV, che genera disparità di trattamento tra pazienti accomunati da analoghi livelli di sofferenza. Anche la Consulta di bioetica rileva come la distinzione tra decesso derivante dall’interruzione del TSV e morte per decorso naturale della malattia sia priva di rilevanza costituzionale e clinica. L’attivazione di un trattamento sproporzionato al solo scopo di rientrare nella fattispecie non punibile configura, in effetti, una forma di accanimento terapeutico, in violazione dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219/2017. La mancanza di una definizione univoca di TSV, inoltre, rafforza l’idea che il requisito sia privo di una solida base giuridico-medica. Nel passaggio più intensamente valoriale della sentenza, la Corte costituzionale ribadisce la centralità del principio personalista quale fondamento della Costituzione repubblicana. Questo principio impone allo Stato di farsi carico, in modo continuativo e non episodico, delle persone in condizione di vulnerabilità, garantendo una presa in carico effettiva da parte del sistema sanitario e sociosanitario. La Corte sottolinea con forza come l’inadeguatezza dell’offerta di cure palliative e di assistenza sociosanitaria possa incidere pesantemente sulla libertà della persona, falsandone le scelte e trasformando la richiesta di morte in una reazione alla solitudine e all’abbandono. La Corte Costituzionale con sentenza n.66 del 2025 dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale, dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano.