Con la sentenza n. 33395 del 2025, la Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione torna a chiarire i confini applicativi dell’aggravante del “metodo mafioso”, ribadendone l’autonomia rispetto all’esistenza di un sodalizio criminale di stampo mafioso. Ciò che rileva non è l’appartenenza, ma la capacità intimidatoria della condotta, tale da evocare — anche solo nella percezione della vittima — il potere e l’autorità tipici delle organizzazioni mafiose. Il caso trae origine da una vicenda occorsa nella baia di Taormina, dove due operatori economici si contendevano il controllo delle postazioni per l’accoglienza dei turisti. L’indagato, A.A., veniva accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni di un concorrente, per aver esercitato pressioni e minacce finalizzate a spostarlo da una determinata area di attività. Dopo il parziale accoglimento del riesame, la difesa ricorreva in Cassazione lamentando — tra le altre — la carenza e contraddittorietà della motivazione del Tribunale, la mancata considerazione delle dichiarazioni rese dall’indagato, nonché l’erronea applicazione dell’aggravante del metodo mafioso. La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, richiamando un principio costante: il giudizio di legittimità sui provvedimenti cautelari è circoscritto alla verifica della correttezza giuridica e della coerenza logica della motivazione, senza possibilità di riesaminare il merito delle prove o di sostituirsi al giudice del riesame nella valutazione degli indizi. Il sindacato di legittimità non può trasformarsi in un nuovo giudizio di merito, ma resta confinato alla verifica della ragionevolezza argomentativa e della non contraddittorietà del provvedimento impugnato. La parte più significativa della sentenza riguarda la qualificazione della condotta come aggravata dal metodo mafioso. La Corte chiarisce che non è necessario dimostrare l’esistenza o la partecipazione a un’associazione mafiosa: è sufficiente che la violenza o la minaccia siano tali da richiamare, nella sensibilità della vittima, la forza intimidatrice tipica del vincolo mafioso. L’art. 416-bis.1 c.p. ha dunque una ratio autonoma e preventiva, volta a colpire non solo chi agevola le organizzazioni mafiose, ma anche chi agisce “come un mafioso”, ostentando o simulando quella forza di coartazione che caratterizza tali contesti. Nel caso concreto, la frase pronunciata dall’indagato — «io gli posso dire che tu appartieni a me» — in un territorio storicamente soggetto al controllo dei clan, è stata ritenuta sufficiente a integrare l’aggravante. La Corte ha confermato la sussistenza delle esigenze cautelari, richiamando la doppia presunzione prevista per i reati aggravati dal metodo mafioso. L’imputato non aveva fornito elementi idonei a superare la presunzione di pericolosità né a dimostrare l’assenza di attualità del rischio di reiterazione, nonostante il tempo trascorso dai fatti contestati. La sentenza, pur muovendosi nel solco di una consolidata giurisprudenza, offre spunti di riflessione. Da un lato, rafforza la funzione autonoma dell’aggravante del metodo mafioso, ormai svincolata da una connessione organica con l’associazione mafiosa. Dall’altro, lascia intravedere il rischio di un’eccessiva dilatazione applicativa dell’art. 416-bis.1 c.p., che potrebbe attrarre nella sfera del metodo mafioso anche condotte connotate solo da rivalità economiche o da conflitti d’interesse. La Corte, tuttavia, considera determinante il contesto territoriale e la percezione sociale dell’intimidazione: non ogni sopraffazione è mafiosa, ma ogni evocazione credibile di potere mafioso lo diventa. La decisione rappresenta un ulteriore tassello nel percorso di autonomizzazione del metodo mafioso come categoria di condotta e non di appartenenza. La Cassazione ribadisce che la mafiosità non è solo una struttura, ma una lingua di potere e intimidazione, che può essere parlata anche da chi non ne è formalmente parte. Resta aperto il dibattito sul limite di tale estensione: fino a che punto la percezione sociale può trasformarsi in elemento costitutivo dell’aggravante? Una questione che segna la frontiera tra la necessaria repressione del fenomeno mafioso e la tutela delle garanzie individuali.
 

 
  
 