La Corte di cassazione, con la sentenza n. 21540 del 9 giugno 2025, è tornata a pronunciarsi su un tema di cruciale rilevanza costituzionale e convenzionale: il rispetto del diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti nei luoghi di detenzione, ai sensi dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso riguardava il reclamo presentato da un detenuto avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Palermo, che aveva rigettato la richiesta di risarcimento prevista dall’art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario, ritenendo che lo spazio minimo garantito in cella fosse adeguato. Tuttavia, il ricorrente aveva sostenuto che, sottraendo la superficie occupata dal letto singolo, la metratura effettivamente disponibile fosse inferiore ai tre metri quadrati, soglia sotto la quale, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, si presume la sussistenza di un trattamento contrario alla dignità umana.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ribadendo che il parametro dei tre metri quadrati per detenuto rappresenta un limite minimo inderogabile, da calcolarsi al netto degli arredi fissi, e in particolare del letto. Questo criterio, chiarisce la Corte, discende direttamente dalla sentenza Mursic c. Croazia della Corte di Strasburgo e ha trovato piena ricezione anche nella giurisprudenza interna, in particolare nella pronuncia delle Sezioni Unite Penali n. 6551 del 2021 (caso Commisso). Nel momento in cui si accerta che il detenuto dispone di uno spazio inferiore a tale soglia, si configura una forte presunzione, seppur superabile, di violazione dell’art. 3 CEDU. Per superare tale presunzione, è necessario che l’amministrazione penitenziaria dimostri l’esistenza di circostanze compensative concrete e adeguate, come la durata limitata della detenzione in quelle condizioni, la possibilità di uscire dalla cella per molte ore al giorno o l’accesso costante ad ambienti salubri e adeguati alla vita carceraria.
Nel caso di specie, il Tribunale di sorveglianza non aveva svolto un accertamento metrico corretto, avendo considerato la superficie della cella in modo lasso e non detraendo l’ingombro fisso del letto, con la conseguenza di avere eluso l’applicazione del parametro giurisprudenziale ormai consolidato. La Cassazione ha quindi annullato l’ordinanza impugnata con rinvio, ritenendo necessario che il giudice di merito proceda a una verifica concreta delle condizioni detentive, tenendo conto sia dello spazio effettivamente disponibile sia dell’eventuale presenza di fattori idonei a neutralizzare l’apparente compressione del diritto fondamentale tutelato dall’art. 3 della Convenzione.
La decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale che progressivamente ha assunto con maggiore rigore i parametri europei in tema di trattamento dei detenuti, affermando che il dato quantitativo dello spazio non è solo un elemento di contorno, ma una soglia che, se non rispettata, attiva un controllo rigoroso da parte dell’autorità giudiziaria. In tal senso, la pronuncia in esame rafforza le garanzie per i soggetti ristretti e stabilisce un chiaro indirizzo interpretativo per i tribunali di sorveglianza, cui spetta il compito di evitare che le carenze strutturali degli istituti penitenziari si traducano in una sistematica violazione dei diritti fondamentali.
Questa sentenza, infine, potrebbe determinare un incremento dei reclami ex art. 35-ter o.p., soprattutto in contesti dove le celle singole o multiple non rispettano le dimensioni minime stabilite, e rappresenta un monito importante per l’amministrazione penitenziaria, chiamata ad assicurare standard compatibili con i principi convenzionali europei e costituzionalmente garantiti.