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La Libertà Religiosa nello Stato Democratico e Sociale Italiano

2025-06-01 14:00

Calogero Jonathan Amato

Diritto costituzionale, Editoriale, laissez faire, libertà,

La Libertà Religiosa nello Stato Democratico e Sociale Italiano

Per comprendere il modo in cui la libertà religiosa è intesa e garantita nell’ordinamento italiano, occorre innanzitutto ricordare che l’Italia è oggi

Per comprendere il modo in cui la libertà religiosa è intesa e garantita nell’ordinamento italiano, occorre innanzitutto ricordare che l’Italia è oggi uno Stato avente ben precise caratteristiche, ossia –come dicono i costituzionalisti– avente una determinata «forma di Stato», che può essere sintetizzata in alcuni aggettivi: costituzionale, democratica, sociale (Welfare State), «aperta» (alla dimensione internazionale), pluralistica e laica. In questo contesto, lo Stato, conformemente alla visuale prevalsa in Occidente fin dal ’600-’700, è ritenuto uno strumento derivante dalla volontà dei cittadini, creato per salvaguardare più efficacemente i diritti dei singoli. Esso nasce idealmente da un «contratto sociale», con cui i cittadini si uniscono in un popolo e trasferiscono parte dei poteri di cui disporrebbero nello «stato di natura» (ad esempio il potere di usare la forza) ad un’organizzazione superiore, che deve garantire a tutti i rispettivi diritti (e, per farlo, può imporre alcuni doveri) ed è obbligata a rispettare il patto (in tal senso sono la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese del 1789). Ecco perché le costituzioni su cui si fondano i Paesi democratici contemporanei –ricollegandosi a tale linea e rifiutando visuali diverse (come quella risalente all’idealismo di Hegel, secondo cui lo Stato è una realtà superiore ai singoli, che conferisce loro identità)– affermano tutte che lo Stato esiste per garantire il «pieno sviluppo della persona umana», come proclama l’art. 3, 2° comma, della Costituzione italiana. Lo Stato democratico e sociale si fonda, dunque, sull’idea che il complesso di libertà riconosciute all’essere umano costituisce ad un tempo il fondamento (preesistente) e la finalità (da perseguire) dell’ordinamento statale. Esso riconosce e garantisce i diritti dell’uomo considerato non solo come individuo, ma anche come membro di comunità intermedie tra il singolo e lo Stato («formazioni sociali», secondo la terminologia usata dalla Carta costituzionale italiana, cioè associazioni, confessioni religiose, comunità territoriali, ecc.: art. 2 Cost.), che erano invece guardate con sospetto in precedenza; considera tutti i cittadini uguali davanti alla legge, come lo Stato liberale ottocentesco, ma, in più, si impegna ad intervenire a favore dei più deboli per rimuovere gli ostacoli concreti, di natura economica, sociale, culturale, che impediscono di fatto una vera uguaglianza (art. 3, 2° comma, Cost.). Per fare tutto ciò amplia enormemente l’apparato amministrativo ereditato dallo Stato liberale e gli interventi concreti nella sfera economica e sociale, reperendo le risorse necessarie mediante la tassazione progressiva del reddito prodotto dai cittadini (art. 53 Cost.), ma lasciando a questi ultimi la proprietà della maggior parte dei mezzi di produzione della ricchezza (artt. 41 e 43 Cost.). Inoltre, lo Stato di cui parliamo può definirsi pluralistico, pur se tale concetto si adatta a situazioni diverse e sfugge a definizioni compiute. In termini generali, un Paese siffatto non concepisce come diritto solo quello emanato dalle istituzioni statali e non «fa risiedere nella legge dello Stato la fonte suprema ed esclusiva del diritto», ma riconosce una molteplicità di centri di potere, più o meno autonomi da esso. Lo Stato democratico e sociale contemporaneo opera una progressiva positivizzazione, generalizzazione, e insieme specificazione, dei diritti di libertà garantiti, che sono concepiti non solo come sfere sottratte ad interferenze pubbliche o private (c.d. «libertà negative») ma anche come strumenti di realizzazione della persona (c.d. «libertà positive»): i pubblici poteri tendono quindi – più che a «laissez faire», lasciando «spazi vuoti» nei quali ogni individuo può gestire tali diritti come meglio può – ad assecondare le libere scelte dei cittadini, favorendone e potenziandone il loro esercizio. Il catalogo dei diritti garantiti è quasi sempre contenuto, insieme alle più importanti regole di organizzazione e di funzionamento dello Stato, nella Costituzione. A tale atto il pensiero giuridico occidentale assegna un’importanza capitale: non solo perché indica qual è la «forma di Stato» (cioè quali sono le sue finalità e che tipo di rapporti vi devono essere tra governanti e governati) e a quali organi spetta esercitare le funzioni che lo Stato è chiamato a svolgere (dunque la «forma di governo»), ma perché è qualcosa di più di un insieme di regole, pur se quasi sempre superiori a tutte le altre (incluse le leggi ordinarie). Riprendendo gli aspetti più convincenti delle principali concezioni elaborate dai giuristi del XX secolo, si può affermare che la Costituzione è un complesso di norme di rango superiore che, ispirate ai valori ed ideali presenti nella società, danno «forma» alla «unità politica» della comunità (cioè determinano in che modo stare insieme per perseguire fini comuni) e sottopongono a regole anche i detentori del potere. Ma è pure un importante fattore di integrazione sociale, che esplicita e alimenta il consenso dell’intera comunità sui principi della convivenza al proprio interno e consente di risolvere pacificamente i conflitti di convinzioni e di interessi. Inoltre, dall’iniziale concezione che le norme costituzionali non potessero vincolare se non la generazione che le aveva poste (propria, nel ’700, dei teorici del federalismo americano e dei giacobini francesi) si è passati all’idea che esistano valori e regole che devono essere rispettati da tutti – anche dalla maggioranza parlamentare e dalla stessa maggioranza dei cittadini –, con la conseguente introduzione del controllo di costituzionalità delle leggi; e addirittura che esistano alcuni principi fondamentali o supremi, non derogabili nemmeno dalla «volontà generale» di questa o delle future generazioni, neppure se espressa mediante il procedimento di revisione costituzionale (secondo un’idea non assolutizzata di democrazia). Al controllo interno di costituzionalità se ne sta poi aggiungendo uno esterno, di conformità al diritto internazionale umanitario, che peraltro ha dovuto superare le difficoltà connesse alla struttura dell’ordinamento internazionale. Poiché quest’ultimo ha una base sociale costituita non da persone, ma da Stati sovrani, non ci sono né un’autorità superiore, né un meccanismo vincolante di risoluzione delle controversie, per cui la tutela degli interessi dei suoi membri è stata fin qui affidata o alla trattativa (che sfocia in trattati internazionali) o all’autotutela (quindi all’uso della forza). Ora la situazione tende a modificarsi, grazie alla sempre maggiore consapevolezza dell’universalità dei diritti umani –la cui protezione è divenuta uno dei principali fini, o almeno degli interessi, anche dell’ordinamento internazionale– ed alla nascita dell’ONU e di organizzazioni internazionali regionali, come il Consiglio d’Europa e le stesse Comunità ed Unione europee: esse hanno proclamato che tale protezione è il «risvolto individuale» degli scopi da loro perseguiti (non potendovi essere «pace e giustizia fra le Nazioni» – per riprendere la formula utilizzata dall’art. 11 della Costituzione italiana – senza che, all’interno di queste, siano garantiti effettivamente i diritti fondamentali delle persone) ed hanno stimolato la produzione di «un corpus normativo internazionale a tutela dei diritti di libertà», assistito da un apparato giurisdizionale o di controllo che ne assicuri l’applicazione.