L’art. 1173 c.c. delinea il novero delle fonti delle obbligazioni suddividendole in tre categorie: “da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto idoneo a produrle in conformità con l’ordinamento giuridico”. Il codice civile, infatti, suole identificare un elenco non tassativo delle fonti delle obbligazioni a maglie molto larghe lasciando libero accesso anche a fattispecie atipiche. Una fra queste è sicuramente il c.d. contatto sociale qualificato, una figura di matrice prettamente giurisprudenziale identificata al fine di accertare una responsabilità contrattuale anche nel caso di soggetti, tra cui si instaura una particolare relazione (detta qualificata) da cui sorgono specifici diritti e specifici doveri di comportamento pur in assenza di un reale contratto intercorrente tra le parti. I soggetti in questione, dunque, non si possono ritenere perfetti estranei, così rendendo pressoché impossibile l’applicazione del risarcimento del danno aquiliano. Perciò, al di là delle forme di responsabilità tipiche, quali sono la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, si è sviluppata l’idea giurisprudenziale di una nuova tipologia di responsabilità contrattuale derivante non da contratto bensì da un pregresso e preesistente vincolo obbligatorio intercorrente tra le parti. I soggetti coinvolti sono parti venute in contatto, non estranee tra loro, per cui il danno cagionato da una di esse nei confronti dell’altra non può essere considerato come mera lesione del generico neminem laedere tipico della responsabilità extracontrattuale.
Prima dell’avvento della legge Gelli-Bianco, sotto l’attenta vigenza della Legge Balduzzi, copiosa giurisprudenza identificava nella fattispecie del contatto sociale qualificato anche il rapporto medico-paziente. Per cui si riteneva che il paziente, sottoscrivendo un contratto con la struttura sanitaria, fosse legato altresì da contatto sociale qualificato con il medico operante, il quale aveva un rapporto diretto con la struttura ospedaliera e oneri diretti di comportamento e protezione nei confronti del paziente. Tale responsabilità contrattuale prevedeva, tra le altre cose, una prescrizione decennale del diritto al risarcimento del danno e l’onere probatorio di non aver cagionato il danno a esclusivo carico del medico (infatti il paziente era tenuto a dichiarare solamente l’inadempimento medico, la cui prova contraria veniva riversata completamente sullo specialista). Infatti, la responsabilità da contatto sociale, oltre ad essere riconosciuta come responsabilità contrattuale atipica faceva riferimento all’art.1175 c.c. in combinato disposto con l’art. 2 cost. ritenendo l’affidamento alla responsabilità medica come fonte di specifici doveri di protezione nei confronti del paziente. A norma quindi dell’art. 1218 c.c. il medico aveva l’onere dimostrare una condotta adeguatamente conforme alla legis artis, e in caso di inadempimento che lo stesso sarebbe stato determinato da causa a lui non imputabile. La struttura ospedaliera rispondeva in duplice forma, dal punto di vista contrattuale ex art. 1218 c.c. e in combinato disposto con l’art. 1228 c.c. per responsabilità oggettiva per fatto commesso dagli ausiliari.
Con l’intervento della L. n. 24 dell’8 marzo 2017 la c.d. Legge Gelli-Bianco è stato introdotto un differente distinguo. L’art. 7, infatti, inquadra diversamente la responsabilità della struttura ospedaliera da quella del medico. Mentre la prima rimane a tutti gli effetti una responsabilità contrattuale disciplinata dal combinato disposto degli artt. 1218 e 1228 c.c. in merito al contratto atipico di spedalità mediante anche il solo consenso implicito basato sull’accettazione del paziente, per la seconda il legislatore si è orientato verso una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. – fatta salva l’ipotesi di un contratto d’opera antecedentemente stipulato tra il medico e il paziente-.
A fronte di questa inversione di rotta del legislatore del 2017 e dell’intervento di “decontrattualizzazione” del rapporto dello specialista cambiano altresì diverse variabili, come per esempio il termine di prescrizione per il risarcimento del danno aquiliano ad anni cinque, e l’inversione dell’onere probatorio questa volta a espresso carico del paziente. Infatti, nell’ambito della responsabilità contrattuale è il soggetto danneggiato a dover provare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito (e cioè la dimostrazione dell’esistenza di un fatto, l’imputabilità del medesimo fatto al soggetto agente a titolo di colpa o di dolo, l’ingiustizia cagionata dal danno, il nesso di causalità intercorrente tra l’evento infausto e la condotta del soggetto agente e infine l’assenza di qualsivoglia tipologia di cause di giustificazione) oltreché di aver subito un danno ingiusto.
In virtù della dimostrazione dell’esistenza del danno ingiusto è compito del paziente, dunque, dimostrare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale che sotto il profilo della causalità giuridica. In merito alle suddette questioni si sono espressi a riguardo gli Ermellini che con ordinanza n. 27151/2023 hanno chiarito che risulta a espresso carico del danneggiato-creditore l’onere probatorio di dimostrare il nesso di causalità giuridica intercorrente tra il comportamento medico e il pregiudizio subito dal paziente. La stessa ordinanza dichiara la possibilità di diminuzione del risarcimento del danno subito dal paziente che, a fronte della propria condotta negligente, ha contribuito a determinare il verificarsi dell’evento ad egli pregiudizievole, di pari passo con una erronea condotta medica che ha determinato una inadeguata prestazione sanitaria a scapito del paziente stesso.
Per terminare si precisa un ulteriore intervento della Suprema Corte a fronte dell’accertamento giuridico del nesso di causalità e del riparto dell’onere probatorio. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25884 del 2022, dichiara che:” nei giudizi risarcitori da responsabilità medica, si delinea un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle”. Quindi, mentre il danneggiato-creditore deve dimostrare il nesso di causalità intercorrente fra l’insorgere della patologia e la condotta tenuta dal medico (dimostrando così il fatto costitutivo del diritto); così il medico-debitore dovrà a sua volta dimostrare l’eventuale causa imprevedibile ed inevitabile che ha determinato l’impossibilità della prestazione non imputabile al sanitario (dimostrando altresì il fatto estintivo). La Corte inoltre precisa la modalità valutativa e i criteri che il Giudice comune deve attuare al fine di accertare il nesso causale, i quali si fondano sulla c.d. probabilità prevalente e del più probabile che no. Anche in questo caso gli Ermellini si soffermano sulle fasi valutative del giudice nel momento in cui si trovi di fronte a differenti ipotesi. Prima fra tutte l’eliminazione dalle ipotesi di quella meno probabile, l’analisi delle rimanenti ipotesi e infine la scelta - non in merito al numero di elementi di conferma e nemmeno in merito alle possibili ipotesi alternative- basata sul maggior grado di conferma degli elementi di fatto e dalla consistenza degli indizi effettuando un ragionamento inferenziale abduttivo in termini di prevalenza.
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