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Immagine del redattoreCalogero Jonathan Amato

Divieto dell’obbligo di trattamento, luci e ombre del diritto a morire

Aggiornamento: 21 feb


Divieto dell’obbligo di trattamento, luci e ombre del diritto a morire

L’articolo 32 comma 2 della Costituzione, che recita che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, hanno creato una divisione in dottrina, sulla liceità delle suddette fattispecie e sull'ampiezza della libertà decisionale del soggetto. Una parte della dottrina legge, in virtù del principio di autodeterminazione, nel secondo comma dell’articolo 32 il diritto a disporre del bene vita e a poter chiedere di morire. Coloro che seguono tale tesi, oltre a ritenere che il soggetto possegga la facoltà di rifiutare i trattamenti sanitari, sostengono che il malato abbia un vero e proprio diritto di morire. In particolare nelle parole “limiti imposti dal rispetto della persona umana”, viene identificata la libertà volitiva rimessa al paziente, il cui mancato rispetto sarebbe una violazione dei sui diritti e delle sua dignità. Come si è visto, il diritto a morire, prevederebbe, non la mera astensione dal somministrare cure, ma la possibilità di chiedere una condotta, attiva od omissiva del medico, che risulta necessaria, con lo scopo di porre fine alla vita del soggetto. Altra parte della dottrina vede come fattispecie distinte e soprattutto non consequenziali il diritto di poter rifiutare le cure e il diritto a morire, che non riconoscono. A fondamento di tale tesi, in primo luogo, oppongono il contesto in cui è nato l’articolo 32 della Costituzione. Come osserva Iadecola, i Costituenti non avrebbero mai messo in discussione l’indisponibilità della vita, poiché “tale principio rappresentava una regola indiscussa all'epoca dell'entrata in vigore della Costituzione e l'eventuale volontà di discostarsene avrebbe richiesto una presa di posizione esplicita, di cui manca qualsiasi indizio [...]. La formulazione fu sollecitata essenzialmente dall'esperienza storica, allora recentissima, dei campi di sterminio e delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione che vi erano attuate [...]. La norma fu approvata proprio con l'intendimento specifico di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non siano volontariamente accettati dal paziente e, più in generale, proteggere la salute del singolo da illecite interferenze da parte dei pubblici poteri» . Si contesta altresì, per sottolineare la differenza intrinseca delle fattispecie, richiamando anche il così detto caso Pretty, la diversità fra “l’essere fisicamente in grado di togliersi la vita da soli che il non esserlo; l’aver bisogno, per morire, che trattamenti siano somministrati, piuttosto che sottratti”. Inoltre, viene osservato come chi neghi la relazione e la necessità del medico, nel caso in cui serva una condotta di quest’ultimo per procurare la morte del malato, lo considera come un mero esecutore, su cui ricadrebbe un vero e proprio dovere, e non un attore del processo decisionale, come riconosciuto dalla Guida del Consiglio d’Europa sulle decisioni di fine vita, oltre a non valutare le limitazioni, già esposte, imposte al personale sanitario dal codice di deontologia medica. Infine la scuola di pensiero che non riconosce il diritto a morire, obbietta che la sola lettura del secondo comma dell’articolo 32, quale “hortus conclusus”, slegata non solo dalla Costituzione e dall’Ordinamento, ma anche dal comma primo, non è una corretta operazione ermeneutica e non si considerano altri valori costituzionali, come la salute quale interesse della collettività e bene indisponibile. Inoltre si richiama la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel caso Pretty, ha sancito, in relazione all’articolo 2 della Convenzione come questo “non potrebbe, senza distorsione di linguaggio, essere interpretato nel senso di conferire un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire; non potrebbe nemmeno far nascere un diritto all’autodeterminazione che dia ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita. La Corte ritiene, dunque, che non è possibile dedurre dall’articolo 2 della Convenzione un diritto di morire, sia per mano di un terzo o con l’assistenza di una pubblica autorità”. In conclusione merita di essere analizzato il concetto di “dovere di vivere” e le differenti dottrine in merito a questo. La questione nasce in merito alle differenti visioni sulla disponibilità della vita e norme, in particolari penali, a difesa di questa. Una parte degli interpreti, che riconoscono, come si è visto, la disponibilità della vita, ravvedono nelle norme del codice penale, in merito alle fattispecie di omicidio del consenziente e istigazione al suicidio, un impianto illiberale e coercitivo per la persona, che non rispetterebbe la volontà del soggetto e la sua libera autodeterminazione, con un’ ideologia impositiva della vita. Anche coloro che non reputano liberticide le norme penali, ritengono che non sia corretta la visione di un dovere alla vita di natura impositiva da parte dello stato, che rientrerebbe in una concezione totalitarista dell’uomo e non in quella personalista, sancita dai costituenti. In particolare si propone una lettura, costituzionalmente orientata, avente un duplice fine. Il primo è quello della tutela dei più deboli, come anche ammonito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Haas c. Svizzera, al fine di impedire gli abusi sulle pratiche di fine vita e dare il sostegno necessario ai soggetti malati. Il secondo aspetto è la posizione nei confronti del suicidio, che, anche quando viene eseguito in maniera autonoma, non è considerato un fatto unicamente privato, senza rilievo sociale. In tal caso, la via non è quella di penalizzare tale condotta, quanto riconoscerne il disvalore sociale e promuovere interventi al fine di proteggere la vita. A suffragio di questa tesi vengono riportati gli interventi legislativi a contrasto del fumo e dell’obbligatorietà del casco, con un fine educativo-culturale, considerati legittimi dalla Corte Costituzionale, che ritiene come “Non può difatti condividersi la tesi, su cui detti profili si fondano, per la quale l'ingerenza statale nella sfera del cittadino sarebbe consentita solo se sia posto in pericolo il diritto alla salute di terzi individui, mentre quando "la collettività nei confronti della salute dell'individuo vanta un mero interesse" sarebbe "illegittima ogni imposizione o limitazione" di diritti di libertà, come quello "di circolazione ed in genere di estrinsecazione della personalità". Così da escludere da un lato l’idea di un dovere di vivere, imposto dalla Stato, e dall’altro si esclude una visione unicamente individualista, anch’essa scartata dai costituenti, per una concezione personalista, in considerazione anche del fatto che, in tema di lavoro e salute, il soggetto non ha una disponibilità piena ed una libertà contrattualistica assoluta, in particolare quando una delle parti si trovi in una posizione di debolezza, come per le pratiche di infibulazione.


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