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Immagine del redattoreCalogero Jonathan Amato

Analisi dell’art. 37 della Costituzione


Le Costituzioni appartengono a un determinato contesto storico, sociale, culturale, riflettono la visione del mondo dominante in quel momento. L’articolo 37, frutto di un compromesso tra i costituenti di parte socialista e clericale, se anche aveva un senso nella realtà del 1948, oggi sembrerebbe non averne più molto. Analizzando l’enunciato «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore», possiamo notare come sia il lavoratore il soggetto di riferimento su cui viene misurato lo svantaggio da colmare, affinché non vi siano discriminazioni. Appare subito chiara la distinzione tra i due sessi, da una parte c’è la donna lavoratrice, dall’altra, semplicemente, il lavoratore. Tale disposizione include la donna nel mondo del lavoro e l’assimila, nella parità dei diritti e della retribuzione al modello maschile, ma in questo caso, l’uguaglianza comporta la cancellazione dell’appartenenza di sesso. Utilizzando poi i termini di “donna lavoratrice” colloca la donna, in un genere, quello femminile, a cui è stato assegnato sulla base di un destino ‘naturale’, un compito e un’identità particolare dove il lavoro sembra essere solo un’aggiunta, un elemento secondario, sia in ordine di tempo che di significato che di valore. Questo lo si capisce meglio proseguendo la disposizione: «Funzione essenziale della donna è quella familiare» e l’organizzazione del lavoro deve tenere conto di questo apportando gli aggiustamenti necessari perché possa continuare a svolgerla. In questo quadro, che si limita a trascrivere la divisione tra privato e pubblico, tra famiglia e Stato, la donna non è mai soggetto, con una propria autonomia: non lo è in quanto lavoratrice assimilata nell’integrazione al modello maschile e non lo è neppure nel momento in cui viene vista come genere, confinata come tutto il sesso femminile, nel ruolo naturale di madre, anche se non ha figli. Vale la pena soffermarsi su due punti: su che cosa si intende per «funzione essenziale», e sul perché, nello stesso articolo, si parla di «lavoro minorile». Ciò che differenzia la donna, vista come genere è la funzione che essa è chiamata a compiere, familiare e materna. La parola “funzione” richiama l’idea di un compito, e prima ancora di un servizio necessario. L’aggettivo “essenziale” può essere interpretato in vari modi: può significare che la funzione materna, familiare della donna è indispensabile. Ma può anche riferirsi a quella che è stata considerata la natura o l’essenza femminile: la maternità, desunta in modo deterministico dalla capacità biologica di fare figli. Oppure, ancora, può volere dire che quello è il ruolo prioritario della donna, che il lavoro viene in secondo luogo, come un’aggiunta, e non deve intralciarlo. C’è poi quella dichiarazione che viene in appendice dell’art. 37, riguardante la tutela del lavoro dei minori, le norme che devono garantire limiti di età e pari retribuzione a parità di lavoro. Ciò che avvicina la donna al bambino è, da un lato, la funzione materna, considerata ‘naturale’, dall’altro, sul versante sociale, la condizione di “minorità” che li accomuna, leggibile come “debolezza”, ma anche come inferiorità di valore, di capacità. Le contraddizioni dell’art. 37 non sono tanto lontane da quella che la femminista storica, Annarita Buttafuoco, definiva «l’incongruenza» dell’emancipazione italiana: rivendicare i diritti delle donne sulla base di quella stessa natura materna che era stata la ragione della loro esclusione. La funzione familiare della donna era il requisito essenziale su cui le donne pretendevano la piena attuazione dei diritti. La maternità viene portata sulla scena pubblica come valore civile, capace di creare forme più umane di socialità. Si parla di virtù del cuore, di virtù domestiche, rafforzando in questo modo la categoria di genere. La maternità resta, in altre parole, il tratto distintivo della identità femminile, quello che viene proposto è solo un ribaltamento: la sensibilità, l’oblatività materna diventano il punto di forza, i valori su cui ridefinire la struttura stessa dei rapporti sociali. La svolta radicale, rispetto alla tradizione, sia familiare che politica, è avvenuta col femminismo degli anni ’70. Viene alla coscienza in quegli anni la distinzione tra la donna e la madre, tra la sessualità e la maternità, ma anche l’idea che passare dalla questione femminile all’analisi del rapporto uomo-donna comporta affrontare punti di fondo della società in generale.

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